giovedì 19 luglio 2012

Buzzati e il Leviatano medico





 
Aprendo a caso il volume dei Centottanta Racconti mi capita Il miracolo di Re Ignazio
Buzzati era ossessionato non tanto dall'idea della morte in sé, quanto da quella della morte in ospedale. Il Leviatano, il freddo mostro burocratico che in Hobbes è di natura politico amministrativa, in Kafka giudiziario-inquisitoria, in Nietzsche conformistico-collettivista, assume in Buzzati la forma dell'assistenzialismo sanitario, simboleggiato dall'immenso nosocomio in cui si entra più o meno sani per uscirne solo in una bara, come succede al Giuseppe Corte di Sette piani. Ciò che gli fa più orrore non è il meccanismo cinicamente egualitario che parifica il sovrano a tutti gli altri ammalati, racchiudendolo «nello stesso mucchio miserando»: perché in lui, nel re, anche il manifestarsi della malattia assume una forma diversa, superiore perfino nel dolore e nella ripugnanza a quella della gente comune. Non è l'incombere della morte, che all'ospedale è «sempre presente» e «il personaggio più importante», ma che poi assume nel racconto le paradossali sembianze di una suora bianca, giovane e bellissima, che si arresta, esita e viene messa in fuga dalla quasi sovrumana manifestazione della malattia e della sofferenza regali.
Il vero incubo per Buzzati è invece la gelida onnipotenza dei medici, dovuta non alla loro grandezza umana ma solamente al ruolo e alla struttura di cui fanno parte, onnipotenza che fa dire al professore chirurgo: «Eppure anche sua maestà dovrà obbedirci obbedirci proprio come un bambino». Un potere assoluto e ineluttabile di cui si sperimenta la presenza solo quando, dopo essercisi goduti la gioventù, la maturità e la vecchiaia giungono a presentarci il conto. E questo «il bivio» a cui prima o poi si deve inevitabilmente arrivare.
Ma a ben vedere, una cosa è dover fare i conti con la vecchiaia e con la malattia, un'altra è farsi indurre da un malsano attaccamento alla salute e alla vita a mettersi in balia del mostro buro-sanitario. Gettandosi anima e corpo nelle mani di medici tanto più tronfi quanto più umanamente inconsistenti, ai quali si affida la potestà suprema sul proprio destino terreno nell'illusoria prospettiva di una guarigione solo apparente e dilatoria: «Per adesso lei è malato. Solo dopo l'operazione comincerà a guarire».
Come sempre, la soluzione al problema della salute è annunciata nel Vangelo, in modo talmente esplicito e chiaro da rimanere nascosta agli occhi dei più: Medice, cura te ipsum. Da leggersi come un invito ad essere i medici di sé stessi, anziché delegare il compito ad altri, sulla base di un'ingenua fiducia collettiva in inesistenti poteri taumaturgici.