sabato 29 dicembre 2012
L'acqua alla gola
Continuiamo pure così,
a prendere per buono ciò che dicono,
per non doverci alzare
dallo scranno dei molti,
da dove è disdicevole enunciare
i pensieri pensati
e non dispensati
dal discount delle idee.
E pure se ci fanno pagare,
fino all'ultima goccia di sudore,
debiti inesistenti
o conti accesi
da quegli stessi falsi creditori
che oggi esigono il saldo,
raccontiamoci che,
sì, dopo tutto,
questo è il male minore.
Senza chiederci mai:
quando si banchettava lietamente,
noi dove eravamo?
giovedì 19 luglio 2012
Buzzati e il Leviatano medico
Aprendo a caso il volume dei
Centottanta Racconti mi capita Il miracolo di Re Ignazio.
Buzzati era ossessionato non tanto dall'idea della morte in sé, quanto da quella della morte in ospedale. Il Leviatano, il freddo mostro burocratico che in Hobbes è di natura politico amministrativa, in Kafka giudiziario-inquisitoria, in Nietzsche conformistico-collettivista, assume in Buzzati la forma dell'assistenzialismo sanitario, simboleggiato dall'immenso nosocomio in cui si entra più o meno sani per uscirne solo in una bara, come succede al Giuseppe Corte di Sette piani. Ciò che gli fa più orrore non è il meccanismo cinicamente egualitario che parifica il sovrano a tutti gli altri ammalati, racchiudendolo «nello stesso mucchio miserando»: perché in lui, nel re, anche il manifestarsi della malattia assume una forma diversa, superiore perfino nel dolore e nella ripugnanza a quella della gente comune. Non è l'incombere della morte, che all'ospedale è «sempre presente» e «il personaggio più importante», ma che poi assume nel racconto le paradossali sembianze di una suora bianca, giovane e bellissima, che si arresta, esita e viene messa in fuga dalla quasi sovrumana manifestazione della malattia e della sofferenza regali.
Buzzati era ossessionato non tanto dall'idea della morte in sé, quanto da quella della morte in ospedale. Il Leviatano, il freddo mostro burocratico che in Hobbes è di natura politico amministrativa, in Kafka giudiziario-inquisitoria, in Nietzsche conformistico-collettivista, assume in Buzzati la forma dell'assistenzialismo sanitario, simboleggiato dall'immenso nosocomio in cui si entra più o meno sani per uscirne solo in una bara, come succede al Giuseppe Corte di Sette piani. Ciò che gli fa più orrore non è il meccanismo cinicamente egualitario che parifica il sovrano a tutti gli altri ammalati, racchiudendolo «nello stesso mucchio miserando»: perché in lui, nel re, anche il manifestarsi della malattia assume una forma diversa, superiore perfino nel dolore e nella ripugnanza a quella della gente comune. Non è l'incombere della morte, che all'ospedale è «sempre presente» e «il personaggio più importante», ma che poi assume nel racconto le paradossali sembianze di una suora bianca, giovane e bellissima, che si arresta, esita e viene messa in fuga dalla quasi sovrumana manifestazione della malattia e della sofferenza regali.
Il
vero incubo per Buzzati è invece la gelida onnipotenza dei medici,
dovuta non alla loro grandezza umana ma solamente al ruolo e alla
struttura di cui fanno parte, onnipotenza che fa dire al professore
chirurgo: «Eppure anche sua maestà dovrà obbedirci obbedirci
proprio come un bambino». Un potere assoluto e ineluttabile di cui
si sperimenta la presenza solo quando, dopo essercisi goduti la
gioventù, la maturità e la vecchiaia giungono a presentarci il
conto. E questo «il bivio» a cui prima o poi si deve
inevitabilmente arrivare.
Ma
a ben vedere, una cosa è dover fare i conti con la vecchiaia e con
la malattia, un'altra è farsi indurre da un malsano attaccamento
alla salute e alla vita a mettersi in balia del mostro
buro-sanitario. Gettandosi anima e corpo nelle mani di medici tanto
più tronfi quanto più umanamente inconsistenti, ai quali si affida
la potestà suprema sul proprio destino terreno nell'illusoria
prospettiva di una guarigione solo apparente e dilatoria: «Per
adesso lei è malato. Solo dopo l'operazione comincerà a guarire».
Come
sempre, la soluzione al problema della salute è annunciata nel
Vangelo, in modo talmente esplicito e chiaro da rimanere nascosta
agli occhi dei più: Medice, cura te ipsum.
Da leggersi come un invito ad essere i medici di sé stessi, anziché
delegare il compito ad altri, sulla base di un'ingenua fiducia
collettiva in inesistenti poteri taumaturgici.
sabato 11 febbraio 2012
L'intruso
Due specchi l'uno di fronte all'altro.
Forse non c'è in natura un'immagine più concreta e tangibile dell'Assoluto.
So con certezza che lì dentro c'è l'Infinito, ma non posso vederlo perché ci sono IO in mezzo.
Per percepirlo direttamente dovrei mettermi da parte. Mettere da parte IO.
Ma se mi tolgo, non posso più guardarci dentro.
Così devo accontentarmi della visione obliqua e di quella certezza intima che l'accompagna.
E non è poi così poco.
giovedì 9 febbraio 2012
FARSA E TRAGEDIA
C'è sempre un lato comico anche nelle situazioni più drammatiche.
A cui aggrapparmi per a rimanere allegro nelle difficoltà.
Il difficile è ricordarmi di farlo al momento giusto.
Se generalmente so essere auto-ironico, sotto pressione tendo a prendermi molto più sul serio. E quindi a prendere sul serio le situazioni.
La difficoltà centrale della vita è sdrammatizzare me stesso per poter prendere le cose allegramente.
E' solo questione di allenamento.
martedì 31 gennaio 2012
Antimetafora.
La ricetta Monti,
presa alla lettera,
può salvare l'Italia:
fare tutti
SACRIFICI
= SACRUM FACERE.
= SACRUM FACERE.
Unica via di scampo:
il ritorno al Sacro.
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